di Fredo Olivero e Margherita Ricciuti
‘Unità nella diversità’ e ‘Ospitalità eucaristica’: due proposte, un cammino …
Una riflessione comune con il contributo di un prete cattolico ed una fedele della chiesa valdese pubblicata da VOCEDELTEMPO online diocesi di Torino
Da alcuni anni il gruppo ecumenico torinese ‘Spezzare il pane’, composto da membri di chiese diverse che già condividevano la lettura ed il commento della Parola, ha deciso di condividere anche la comunione, chiedendo ‘ospitalità eucaristica’ad alcune chiese ed ai loro pastori. Non viene richiesto, per vivere insieme quest’evento, l’adesione ad un ‘pensiero unico’ sull’eucarestia, ma piuttosto il rispetto di tutti per il pensiero di ognuno; del resto – come anche Paolo Ricca ha osservato nel suo ‘L’ultima cena, anzi la prima’ – se né Gesù, né Paolo hanno spiegato il ‘come’ di questa presenza, perché allora dobbiamo farlo noi?
E’ ormai consuetudine che, una volta al mese, il gruppo si incontri in un chiesa cattolica, luterana, valdese o battista per condividere l’eucarestia, partecipando al culto o alla messa – officiati secondo la liturgia della chiesa ospitante – e collaborando con ruoli diversi alla celebrazione. Distribuzione della comunione, letture e commento della Parola divengono così altrettante occasioni di condivisione ecumenica, ricollocando in primo piano la propria identità di cristiani rispetto a quella di appartenenza ad una specifica chiesa. All’accoglienza eucaristica hanno così aderito, in misura crescente, diversi luoghi di culto, qualche comunità e qualche realtà parrocchiale, e questa pratica va ora diffondendosi anche in altre città.
Nuove esperienze si stanno così sviluppando, favorite anche dal clima di una rinnovata apertura ecumenica avviata nella chiesa cattolica. Sono ormai trascorsi due anni dalla richiesta di perdono rivolta da papa Francesco ai valdesi a Torino il 22 giugno 2015, ed in quell’occasione il Moderatore della Tavola Valdese, Eugenio Bernardini, gli fece anche presente che ‘tra le cose che abbiamo in comune ci sono il pane e il vino della Cena e le parole che Gesù ha pronunciato in quella occasione. Le interpretazioni di quelle parole sono diverse tra le chiese e all’interno di ciascuna di esse. Ma ciò che unisce i cristiani raccolti intorno alla mensa di Gesù sono il pane e il vino che Egli ci offre e le Sue parole, non le nostre interpretazioni che non fanno parte dell’Evangelo’.
Papa Francesco avrebbe smentito se stesso se, come in passato hanno fatto altri pontefici, avesse risolto motu proprio la questione, negando con una decisione autorevole, ma soprattutto autoritaria, il processo di rinnovamento che ha avviato nella sua chiesa, nel tentativo di traghettarla da un modello decisionale ‘papale’ ad uno ‘sinodale’. Tuttavia, la risposta data da lui, a titolo personale, in una chiesa luterana di Roma il 15 novembre dello stesso anno, ad una signora che lo interrogava circa la possibilità di condividere l’eucarestia con il marito cattolico, non lascia molti dubbi sul suo pensiero personale: ‘Alla domanda sul condividere la Cena del Signore non è facile per me rispondere … condividere la Cena del Signore è il fine di un cammino o è il viatico per camminare insieme? Lascio la domanda ai teologi, … ma io mi domando: ma non abbiamo lo stesso battesimo? E se abbiamo lo stesso battesimo dobbiamo camminare insieme. … e questo è un viatico che ci aiuta a camminare.’ Una risposta personale, data tralasciando la lettura del discorso ufficiale preparato per l’occasione, che richiamava l’importanza di ‘approfondire in particolare i temi della Chiesa, dell’Eucaristia e del Ministero’. Nella chiesa cattolica, come anche in altre chiese, vi sono perciò almeno due anime che hanno punti di vista diversi sulla risposta da dare alla domanda: ‘spezzare insieme il pane è il fine di un cammino, oppure un viatico?’ E’ perciò oggi responsabilità di quanti, dentro e fuori la chiesa cattolica, sono coinvolti da questa dialettica, far risuonare di più l’una o all’altra voce, anche con le proprie scelte e compotamenti.
L’ ‘unità nella diversità’ rende più agevole il processo ecumenico, e salvaguardando le diverse posizioni teologiche ed organizzative di ogni chiesa, consente di decantare ciò che non è essenziale per il cristianesimo, restituendo una posizione di primo piano alla fede nel Gesù dei Vangeli. Da Oscar Cullmann, il teologo luterano che propose questo modello dell’unità nel 1980, la diversità fra le chiese non era considerata un ostacolo ma piuttosto una fonte di arricchimento reciproco, e quindi una risorsa per la chiesa cristiana. Questo modello, cornice appropriata anche per l’intercomunione, a lungo ignorato dalla chiesa cattolica, viene ora indicato da papa Francesco come il modello dell’unità; ne parlò, per la prima volta, il 28 luglio del 2014, qualche mese dopo la sua elezione, durante l’incontro con i pentecostali della riconciliazione, recandosi nella loro chiesa a Caserta: ‘… dal primo momento del cristianesimo, nella comunità cristiana c’è stata questa tentazione. “Io sono di questo”; “Io sono di quello”; “No! Io sono la chiesa, tu sei la setta”… Lo Spirito Santo fa la “diversità” nella Chiesa. La prima Lettera ai Corinzi, capitolo 12. … Ma poi, lo stesso Spirito Santo fa l’unità, e così la Chiesa è una nella diversità … E’ in questa strada che noi cristiani facciamo ciò che chiamiamo col nome teologico di ecumenismo.’ Queste parole indicano, perciò, in modo chiaro proprio ‘quel’ modello, sul quale anche il mondo evangelico ovviamente converge.
Numerosi passi sono stati compiuti durante questo pontificato verso l’unità, con un cambiamento nel clima e nello stile delle relazioni reciproche alimentato anche dalla decisione di celebrare insieme i 500 anni della Riforma: una ricorrenza che è stata anche al centro del Convegno ecumenico della CEI svoltosi a Trento nel novembre scorso, nel quale vi è stata un’ampia partecipazione di relatori e di membri delle chiese evangeliche. E don Cristiano Bettega, direttore del’Ufficio Ecumenismo della CEI ed organizzatore di quel convegno, coerentemente con quest’impostazione ha recentemente dichiarato (E.C.O. n.2/2017) che, per il superamento dell’autoreferenzialità, è necessario ‘guardare l’altro come qualcuno da cui posso imparare e non come qualcuno a cui dare un contentino perché è un ortodosso o un protestante … Ciascuno di noi è chiamato ad imparare dall’altro perché la verità a cui aneliamo è qualcosa che supera me cattolico, me ortodosso, me protestante e come tale va ricercata insieme.’
Anche il dogma della transustanziazione, introdotto dal Concilio di Trento in un clima segnato dalla Controriforma, e che ha a lungo diviso i cattolici dagli altri cristiani, è oggi letto da molti teologi cattolici (Alberto Maggi e Carlo Molari in Rocca n.9/2017, e molti altri) come transignificazione delle specie e commemorazione nel rito, con ‘distinguo’ che è sempre più difficile riconoscere rispetto alle letture evangeliche; la presenza ‘reale’ infatti non è più intesa come ‘materiale’, ma come ‘presenza reale spirituale’.
Ciò su cui mancano ancora pronunciamenti altrettanto autorevoli nel mondo cattolico, è se sia davvero necessario che a ripetere le parole dette da Gesù spezzando il pane nell’ultima cena sia un ‘ministro regolarmente ordinato nella successione apostolica’. Noi, che non siamo teologi, abbiamo letto e riletto il Vangelo, ma non abbiamo trovato nessuna traccia di un’ordinazione di tutti i presenti fatta da Gesù, prima di esprimere la sua richiesta: ‘Fate questo in memoria di me!’
Torino 26.5.2017
CHIESA DI SAN ROCCO.